Cnoas – Comunicato stampa del 10 luglio 2014 – Una riflessione a palloni (quasi) fermi…

Palloni sgonfiati

Forse stupirà leggere qui di Buffon e Balotelli, Cassano e Chiellini, ma giova ricordare che lo sport ha una enorme funzione sociale, spesso disattesa.

I mondiali brasiliani sono stati per l’Italia fallimentari, in continuità con quanto avvenuto quattro anni prima in Sudafrica e con quanto accaduto nelle ultime stagioni di Coppe Europee. L’Italia che arranca, il declino economico, tutto vero, eppure non c’è solo questo, altrimenti non si spiegherebbero i risultati di altre squadre che hanno meno mezzi (ad esempio il Costa Rica) o spendono meno dei nostri club (Atletico Madrid e Benfica, finaliste in coppa).

Buffon ha dato del problema una lettura in chiave generazionale: i veterani ‘tirano la carretta’ mentre i giovani non ci mettono la grinta. Parzialmente vero: dipende da quali sono i giovani (ed i veterani) a cui ci si riferisce.

Balotelli ha detto di sentirsi discriminato perché di colore. Parzialmente vero: i cretini che lo fischiano per la pelle nera esistono, e sono per l’appunto cretini, ma questo non può diventare l’alibi perfetto, non può essere la scusa per ogni errore. Se in campo passeggi piuttosto che lottare, se hai atteggiamenti costantemente sopra le righe che arrecano danno alla mia squadra, io tifoso ce l’ho con te, che tu sia nero, bianco o persino verde.

Quelli di Buffon e Balotelli sono frammenti di verità molto parziali, la realtà è ben più complessa e, per comprenderla, occorre una lettura secondo il codice culturale: la morte di Ciro Esposito, il tifoso del Napoli colpito da colpi di un’arma da fuoco prima della finale di Coppa Italia e deceduto proprio a ridosso dell’eliminazione della Nazionale, è una cartina di tornasole ben più potente di una sconfitta che, anche se amara, fa parte delle regole del calcio come di ogni sport.

L’Italia non è più dentro al gioco, ne è ai margini: più che belle giocate ci restano cronaca nera e qualche riflesso di moviola, tanto per acuire ancor di più il clima da bar sport permanente in cui ciascuno scarica sull’altro la colpa senza dar peso alle proprie mancanze.

A chi obietta che lo stadio non è un cenacolo letterario, si può rispondere che forse ha ragione (o forse no, perché è da là che Osvaldo Soriano ha tratto linfa per i suoi libri, per dire di letteratura applicata al pallone….), ma non deve essere nemmeno il peggior postribolo, anche perché migliaia di ragazzi frequentano quel contesto, che può contenere anche forti energie positive. Le iniziative dell’ex Commissario Tecnico Prandelli, ad esempio, che aveva istituito un codice etico e aveva portato la Nazionale ad allenarsi a Rizziconi, una trasferta dal forte valore simbolico in un campo confiscato alla ‘ndrangheta, hanno rappresentato un segnale forte per un mondo, quello del calcio professionistico, spesso giustamente accusato di vivere, da un lato, in una bolla di sapone sospesa dalla realtà e dall’altro, al centro di giri di denaro tanto assurdi quanto non sempre ‘puliti’. Poi il codice etico ha avuto qualche deroga che ne ha svilito il significato e lo spirito che animava la visita a Rizziconi deve essere evaporato, perso tra gli azzurri nelle difficoltà quotidiane del comprendere l’altro. L’incapacità di far gruppo, l’incapacità di capirsi.

Oggi serve una rivoluzione culturale, per uscire da un tunnel che è sì sportivo, ma soprattutto educativo.

Serve che i ragazzi possano avere più soggetti che siano in grado di fornire loro una educazione reale, anche perché spesso attori sociali importanti come la famiglia (ed a ruota, la scuola) hanno già abdicato al loro ruolo. Buffon ha detto delle frasi da padre, non analizzando però il ruolo dei veterani e degli allenatori nel rapporto con questi figli indisciplinati. È solo colpa dei “figli” questo atteggiamento o anche tra i “padri” ci sono mancanze che non aiutano i ragazzi? Andate a vedere una partita di calcio giovanile e troverete sugli spalti tante risposte, tra adulti che imprecano, che danno istruzioni, che scaricano le colpe su altri, che litigano tra di loro, che insultano chiunque gli capiti a tiro! Un allenatore di squadre giovanili, Birindelli, l’anno scorso ritirò la propria squadra dopo che in tribuna era divampata una lite tra genitori. Un gesto educativo, nelle sue intenzioni, per riportare alle proprie responsabilità quegli adulti: quel gesto venne punito con la sconfitta a tavolino ed un punto di penalizzazione. Invece di sottolineare il valore simbolico di quell’iniziativa, semplice ma efficace, si scelse di punirla, di avallare il diritto all’inciviltà che tracima dagli spalti ai terreno di gioco, instillando veleno nei campi da calcio dove giocano i ragazzi.

Serve la cura del futuro, il ritorno ad una educazione che sia punto d’origine per tutto il resto ed un lavoro che venga impostato per premiare la cultura dell’inclusione, del confronto, della comprensione (e della meritocrazia). La sfida vera del calcio italiano, e come sempre lo sport è metafora della vita, è ripartire dai vivai, dai giovani, creare scuole che formino uomini, e poi giocatori, fare da collante tra generazioni che stentano a parlarsi, chiuse nelle loro cuffie, figurarsi a capirsi! La sfida è operare per un lavoro di comunità, tanto caro alla nostra professione. Lavorare nella società civile affinché il ragazzo che gioca con la palla lo sappia fare assieme agli altri. Altrimenti per tutti sarà una sconfitta letale.

E resterà sul campo una (un’altra?) generazione perduta.

Federico Basigli
Consigliere nazionale
Ordine degli Assistenti sociali